Quando si entra nel territorio della socializzazione, ho spesso una reazione di allerta. È un retaggio che mi porto dietro fin da bambina perché ho sempre osservato e riflettuto molto sulle dinamiche tra le persone, i ragazzi, gli amici, i conoscenti. Ho scoperto negli anni un bellissimo termine che mi ha davvero cambiato la vita proiettandomi in un’ottica diversa e più accettabile: “il collega”.
Quando osservo i ragazzi in classe e li vedo muovere tra di loro con fatica dissimulata, questo termine mi aiuta tantissimo. Nel momento in cui si affronta il tema delle amicizie, che sempre emerge vista l’esigenze dell’adolescente di confrontarsi col gruppo dei pari, questo lemma riesce a porgermi un’argomentazione che cambia l’atmosfera della classe.
Nella storia di ognuno esiste il momento di socialità che ha segnato nel bene e nel male la propria crescita.
Si interviene sul gruppo classe promuovendo il lavoro di gruppo, si cerca di coinvolgere i ragazzi che sembrano più isolati, si tenta di stimolare in tutti il lato migliore che converga alla collaborazione, per altro con ottime intenzioni.
Subito spicca il ragazzino o la ragazzina che passa la ricreazione impegnato in progetti personali, nella lettura di un libro o perso in riflessioni immersive.
Questa stranezza fa pensare a frange di fragilità. Non possiamo dire che non trovare compagni affini sia piacevole, non possiamo nemmeno raccontarci che i ragazzi che osservano “colui che è strano” vivano questa presenza sempre con curiosità e simpatia, anzi.
Ecco perché il termine magico giunge a fagiolo. Riflettendo su quale sia il vero senso dell’amicizia si scopre spesso che in molti si sentono soli, anche quelli che sembrano i più aperti e socialmente apprezzabili.
Pirandello ci aiuta spiegando come ogni contesto richiami maschere di personalità protettive e adattogene, ed emerge alla fine sempre la stessa domanda: “Se io sono diverso nelle varie circostanze, ma sono ogni volta davvero io, cosa rende la mia persona sempre riconoscibile ad un amico?”.
Sorprendentemente i ragazzi pongono attenzione, tutti, i Gifted compresi, perché a molti di loro questa profondità piace.
Pian piano con i loro compagni fanno emergere il concetto di autenticità. La nostra autenticità ha un valore immenso e meritevole. Talmente meritevole che per emergere necessita di un atto di volontà: rendersi vulnerabili agli occhi altrui, e allora sì è difficile per tutti avere veri amici, coloro che ci riconoscono nel profondo in ogni circostanza.
I colleghi possono non essere amici, anche non stimarsi, ma riescono ad apprezzarsi nel fare, mettendo da parte le divergenze e la necessità di piacersi in un’ottica diversa: l’orientamento al compito.
E così, tra un’osservazione e l’altra, il lavoro scolastico comincia ad avere un senso compiuto, una priorità diversa. Il respiro si abbassa, l’ansia da prestazione si placa, e ognuno sente di essere nel normale attimo di fusione con se stesso e con la propria accettabile autentica solitudine, ben conosciuta da molti Gifted: è l’unico terreno dal quale, davvero ed equamente, si può cominciare a gettare i ponti.
TO BE CONTINUED